Teatro Laboratorio

Affermazioni di Principi

I dieci Principi del Teatro Laboratorio

J. Grotowski

I

Il ritmo della vita nella civiltà moderna è caratterizzato dalla velocità, dalla tensione, da una sensazione di catastrofe; dal desiderio di nascondere le nostre motivazioni personali, assumendo una quantità di ruoli e di maschere esistenziali (differenti a seconda che ci si trovi in famiglia, al lavoro, fra amici o nella vita sociale ecc.). Amiamo essere “scientifici’, e propriamente razionali e cerebrali, poiché tale è l’atteggiamento imposto dall’andamento della civiltà. Comunque, desideriamo pure pagare un giusto tributo alla nostra esistenza biologica, a quelli che possiamo definire piaceri fisiologici. Non accettiamo restrizioni in questo campo. perciò che facciamo un doppio gioco di intelletto ed istinto, pensiero ed emotività; tentiamo di dividerci artificialmente in corpo e anima. Quando tentiamo di liberarci da tutto questo ci mettiamo ad urlare e a scalpitare scuotendoci convulsamente al ritmo della musica. Nella nostra ricerca di liberazione raggiungiamo il caos biologico. Soffriamo soprattutto di una mancanza di totalità, che ci porta alla dispersione e alla dissipazione di noi stessi.
Il teatro – grazie alla tecnica dell’attore, quest’arte in cui un organismo vivo lotta per motivi superiori – presenta una occasione di quel che potremmo definire l’integrazione, il rifiuto delle maschere, il palesamento della vera essenza: una totalità di reazioni fisico mentali. Questa possibilità deve essere utilizzata in maniera disciplinata, con una piena consapevolezza delle responsabilità che essa implica. È in questo che possiamo scorgere la funzione terapeutica del teatro per l’umanità nella civiltà attuale. È vero che è l’attore a compiere questo atto, ma può farlo solo mediante un incontro con lo spettatore – in modo intimo, visibile, non nascondendosi dietro un ‘cameraman’, una costumista, uno scenografo o una truccatrice – stabilendo un confronto diretto con lui, e in qualche modo “sostituendosi” a lui. L’atto dell’attore – questo rifiuto delle mezze misure, la penetrazione, l’apertura, l’uscir fuori da se stesso invece di chiudercisi – costituisce un invito rivolto allo spettatore. Tale atto potrebbe essere paragonato all’atto di un amore profondamente radicato e autentico fra due esseri umani – questo è giusto un paragone, poiché possiamo parlare soltanto mediante analogia di questo “uscire da se stessi”. Questo atto paradossale ed estremo, noi lo definiamo un atto totale. Secondo noi esso riassume la vocazione più profonda dell’attore.

II

Perché spendiamo così tante energie per la nostra arte? Non certo allo scopo di farci maestri degli altri, ma per imparare con loro che cosa debbano darci la nostra esistenza, il nostro organismo, la nostra esperienza personale e irripetibile; imparare ad infrangere le barriere che ci circoscrivono e a liberarci dalle fratture che ci ostacolano, dalle bugie su noi stessi che costruiamo ogni giorno per noi stessi e per gli altri; a rimuovere i limiti generati dalla nostra ignoranza e dalla nostra mancanza di coraggio; in breve, a riempire il nostro vuoto, a realizzare noi stessi. L’arte non è né una condizione dell’anima (nel senso di un momento straordinario e imprevedibile di ispirazione) né una condizione dell’uomo (nel senso di una professione o di una funzione sociale). L’arte è una maturazione, una evoluzione, un elevamento che ci permette di emergere dall’oscurità in un bagliore di luce.
Lottiamo quindi per scoprire, per sperimentare la verità su noi stessi; per strappar via le maschere dietro le quali ci nascondiamo ogni giorno. Noi concepiamo il teatro – soprattutto nel suo aspetto carnale e palpabile – come un luogo di provocazione, una sfida che l’attore lancia a se stesso e anche, indirettamente, agli altri. Il teatro ha un significato solo se ci permette di trascendere la nostra visione stereotipata, i nostri livelli di giudizio – non tanto per fare qualcosa fine a se stessa ma per verificare la realtà e, avendo rinunciato già a tutte le finzioni di ogni giorno, in uno stato totalmente inerme, svelare, donare, scoprire noi stessi. In questo modo – mediante lo choc e il tremore che ci causa la caduta della maschera e dell’affettazione abituali – noi siamo in grado, senza nascondere più nulla, di affidarci a qualcosa che non è possibile definire precisamente, ma in cui si trovano compresi Eros e Charitas.

III

L’arte non può essere regolata dalle leggi della comune moralità o da un qualsiasi catechismo. L’attore, almeno in parte, è un creatore, un modello e una creazione racchiusi in un unico oggetto. Non deve essere sfrontato poiché ciò porta all’esibizionismo. Deve aver coraggio, non soltanto il coraggio di esibire se stesso – un coraggio passivo, potremmo dire, il coraggio dell’indifeso, ma anche il coraggio di penetrare se stesso. Né la penetrazione delle proprie zone pii intime, né un denudamentototale devono essere considerati un male nella misura in cui, nel processo di preparazione o nell’opera completa, danno vita ad un atto di creazione. Se queste cose non si ottengono facilmente e se non sono segni di un’esplosione, ma di una padronanza, esse sono creative: ci denudano e ci purificano mentre trascendiamo noi stessi. Allora davvero contribuiscono al nostro miglioramento.
Per questi motivi, ogni aspetto del lavoro di un attore che abbia un rapporto con argomenti intimi dovrebbe essere salvaguardato da osservazioni incidentali, indiscrezioni, indifferenza, commenti e scherzi vani. Il regno personale – sia spirituale che fisico – non deve essere ” impantanato” dalla banalità, dalle meschinità della vita e la mancanza di tatto che usiamo sia verso noi stessi che verso gli altri, almeno non nel posto di lavoro o in qualsiasi altro posto collegato ad esso. Questo postulato suona come un ordine morale astratto. Non lo è. Esso investe la più profonda essenza della vocazione dell’attore. Questo mestiere trova la sua realizzazione nella carnalità.
L’attore non deve illustrare ma compiere un “atto dell’anima” tramite il suo organismo. Si aprono così, davanti a lui, due alternative estreme: egli può vendere, disonorare, il suo essere concreto e “incarnato” facendo di sé un oggetto di prostituzione artistica: oppure può donare se stesso, santificando ii suo essere concreto e “incarnato”.

IV

Un attore può essere guidato e ispirato soltanto da qualcuno che sia impegnato con tutta l’anima nella sua attività creativa. Il regista mentre guida e ispira l’attore deve al tempo stesso lasciarsi guidare e ispirare da quest’ultimo. Si tratta di libertà, di collaborazione e non presuppone una mancanza di disciplina, ma un rispetto per l’autonomia degli altri.
Il rispetto per l’autonomia dell’attore non significa anarchia, indulgenza nelle richieste, discussioni interminabili, e sostituzione dell’azione con fiumi incessanti di parole. Il rispetto per l’autonomia, invece, implica vastissime richieste, l’aspettarsi il massimo sforzo creativo e la più personale penetrazione. Compreso questo, la sollecitudine per la libertà dell’attore può essere generata dalla pienezza della guida e non dalla sua carenza di pienezza. Una tale carenza presupporrebbe soperchieria, dittatura e ammaestramento superficiale.

V

L’atto di creazione non ha niente a che vedere con la comodità esterna o la cortesia umana convenzionale; cioè condizioni di lavoro in cui ognuno sia felice. Esso richiede il massino silenzio e la minima loquacità. In questo genere di creatività noi discutiamo tramite le proposte, le azioni e l’organismo vivo, non mediante spiegazioni.
Quando infine scorgiamo noi stessi instradati in un cammino difficile e spesso anche vago, non abbiamo alcun diritto di smarrirlo con frivolezza ed incuria. Perciò, anche durante interruzioni dopo le quali riprenderemo il processo creativo, abbiamo il dovere di conservare alcune reticenze naturali nel nostro comportamento e anche nelle nostre faccende private. Questo vale tanto per il nostro lavoro quanto per il lavoro dei nostri compagni. Non dobbiamo interrompere e turbare il lavoro perché le nostre faccende private ci incalzano; non dobbiamo sbirciare, fare commenti o scherzi su questo, in privata sede. In ogni caso, idee private di divertimento non trovano posto nel mestiere dell’attore.
Nel nostro modo di affrontare i compiti creativi, anche se il tema è un gioco, dobbiamo essere in uno stato d’animo di disponibilità – si potrebbe persino dire di “solennità”. La nostra terminologia di lavoro che ci serve da stimolo non deve essere dissociata da esso e usata in un contesto privato. La terminologia di lavoro dovrebbe essere collegata solo a ciò che serve.
Un atto creativo di questo genere viene attuato all’interno di un gruppo, e perciò entro certi limiti dobbiamo frenare il nostro egoismo creativo. L’attore non ha alcun diritto di plasmare i suoi compagni in modo da ampliare le possibilità della sua prestazione. E non ha, neppure, il diritto di correggere il suo compagno, a meno che non vi sia autorizzato dal direttore del lavoro. Gli elementi intimi e definitivi del lavoro degli altri sono intoccabili e non devono essere fatti oggetto di commento neppure in loro assenza. Conflitti privati, litigi, opinioni, animosità sono inevitabili in qualsiasi gruppo umano. È un nostro dovere verso la creazione dominarli nella misura in cui potrebbero deformare e far naufragare il processo operativo. Noi abbiamo il dovere di aprirci persino con un nemico.

VI

È stato detto più volte – ma non lo metteremo in risalto e non lo spiegheremo mai abbastanza – che non dobbiamo mai utilizzare in sede privata qualsiasi cosa connessa con l’atto creativo: cioè la situazione, i costumi, gli accessori, qualche elemento preso dalla partitura recitativa, un tema o dei versi melodici del testo. Questa regola vale anche per i più minuti particolari e non possono essere operate delle eccezioni. Non abbiamo ideato questa regola soltanto per pagare un tributo ad una particolare devozione artistica. Non ci interessa la magniloquenza o le parole nobili, ma la nostra consapevolezza e esperienza ci insegnano che la mancanza di una rigida osservanza di certe regole priva la partitura dell’attore delle sue motivazioni e della sua “radiosità” psichica.

VII

Condizioni essenziali al lavoro di tutti gli attori sono l’ordine e l’armonia; senza di esse non può esservi un atto creativo. Qui noi esigiamo consistenza. La richiediamo agli attori che si avvicinano al teatro con piena consapevolezza di sottoporre se stessi a una prova con qualcosa di estremo, una specie di sfida che attende una rispondenza totale da ognuno di noi. Essi vengono per verificare se stessi con qualcosa di definitivo che oltrepassa il significato di “teatro” ed è molto vicino ad un atto di vita, a un modo esistenziale. Questo schema probabilmente suona alquanto vago. Se vogliamo spiegarlo in modo teorico, potremmo dire che il teatro e la recitazione sono per noi una specie di strumento che ci permette di uscire da noi stessi, di realizzarci. Potremmo addentrarci molto in questo campo. Tuttavia, chiunque resti qui oltre il puro periodo di prova si rende perfettamente conto che quello di cui stiamo parlando può essere inteso meglio mediante i particolari, le necessità ed i rigori del lavoro in ogni suo elemento, che tramite parole magniloquenti. L’individuo che disgreghi gli elementi fondamentali, che per esempio non rispetti la sua propria partitura recitativa e quella degli altri, annientando la struttura con la simulazione o la riproduzione automatica, è proprio quello che turba questi indefinibili motivi superiori della nostra attività comune. Particolari apparentemente irrilevanti formano lo sfondo contro cui si stagliano le questioni fondamentali; come per esempio il dovere di annotare gli elementi scoperti nel corso del lavoro.
Non dobbiamo fidarci della nostra memoria a meno che non sentiamo la spontaneità del lavoro minacciata; e anche in tal caso, dobbiamo prendere alcuni appunti. Questa è una regola tanto fondamentale quanto lo sono la rigida puntualità, la completa memorizzazione del testo, e cosí via, Qualsiasi forma di simulazione è del tutto inammissibile nel nostro lavoro. Capita talvolta, tuttavia, che un attore scorra rapidamente una scena limitandosi a tracciarne le grandi linee, alfine di verificarne l’ordine e le componenti dell’azione del suo compagno. Ma anche allora deve seguire le azioni attentamente, misurando se stesso in rapporto ad esse, allo scopo di penetrarne i motivi. È questa la differenza che corre fra una delineazione e una simulazione.
L’attore deve essere disposto sempre ad intraprendere l’atto creativo nel momento esatto deciso dal gruppo. Da questo punto di vista, la sua salute, le sue condizioni fisiche, e tutte le sue faccende private cessano di essere soltanto affare suo personale. Un atto creativo di questo genere sboccia solo se alimentato da un organismo vivo. Abbiamo perciò il dovere di prendere cura giornalmente del nostro corpo in modo da essere sempre pronti per i nostri compiti. Non dobbiamo privarci del sonno per divertimenti di ordine privato per poi recarci al lavoro stanchi o con il mal di capo residuo di qualche sbornia. Non dobbiamo arrivare incapaci di concentrarci. La regola qui non è soltanto un atto obbligatorio di presenza sul posto di lavoro, ma la disponibilità fisica a creare.

VIII

La creatività, soprattutto per quanto riguarda la recitazione, è sincerità senza limitibenché disciplinata: cioè articolata mediante segni. Il creatore da questo punto di vista non dovrebbe perciò incontrare limiti nel suo materiale. E poiché il materiale dell’attore è il suo corpo, dovrebbe essere allenato ad obbedire, ad essere duttile, a dare una rispondenza passiva ad impulsi psichici come se si annullasse nell’attimo della creazione – ed è questo che intendiamo quando diciamo che non oppone alcuna resistenza. La spontaneità e la disciplina sono gli aspetti fondamentali del lavoro di un attore ed essi esigono una ricerca sistematica.
Prima che una persona decida dì fare qualcosa, deve elaborare un punto d’orientamento e poi agire in conformità e in modo coerente. Questo punto d’orientamento dovrebbe apparirgli del tutto chiaro, risultato di convinzioni naturali, osservazioni precedenti ed esperienze della sua vita. I postulati fondamentali di questo metodo costituiscono per la nostra troupe il punto d’orientamento. Il nostro istituto è organizzato in modo da poter analizzare gli effetti derivanti da questo punto d’orientamento. Perciò, chiunque venga e resti qui non può lamentare una mancanza di conoscenza del programma sistematico della troupe. Chiunque venga e lavori qui, e voglia poi mantenersi in una posizione di prudenza (per quel che riguarda la consapevolezza creativa) mostra uno sbagliato tipo di attenzione per la propria individualità. Il significato etimologico di “individualità” è ‘indivisibilità” il che indica un’esistenza completa in qualcosa: individualità rappresenta l’esatto contrario di disimpegno. Noi sosteniamo, perciò, che quelli che vengono qui per restare scoprono ne! nostro metodo qualcosa di profondamente congeniale, frutto della loro vita e della loro esperienza. Noi supponiamo che dal momento in cui accetta coscientemente questo, ogni partecipante si senta in dovere di allenarsi in modo creativo e cerchi plasmare le proprie varianti senza prescindere dal proprio essere, accettando un orientamento aperto a rischi e ripensamenti. Poiché ciò che qui viene definito “il metodo” è esattamente l’opposto di qualsiasi tipo di ricetta.

IX

II punto principale è che l’attore non tenti di acquisire alcun tipo di ricetta o di costruirsi un “arsenale di artifizi”. Questo non è un luogo adatto per far collezione di ogni genere di mezzi espressivi. La forza di gravità del nostro lavoro spinge l’attore verso una maturazione interiore che si manifesta mediante una disponibilità ad infrangere le barriere, a ricercare un “vertice”, la totalità.
Il primo dovere dell’attore è di intuire che nessuno, qui, intende dargli qualcosa; al contrario, si progetta di prender molto da lui, di togliergli ciò a cui è abitualmente attaccato: la sua resistenza, la reticenza, la sua propensione a nascondersi dietro le maschere, il suo disimpegno, gli ostacoli che il suo corpo pone sui cammino dell’atto creativo, le sue abitudini e anche le sue solite “buone maniere.

X

Prima che un attore sia in grado di compiere un atto totale egli deve adempiere a un gran numero di esigenze, alcune delle quali sono così sottili, così intangibili da non potersi praticamente definire per mezzo delle parole. Esse diventano semplici mediante l’applicazione pratica.
È più facile tuttavia, precisare quali condizioni rendono irrealizzabile un atto totale e quali azioni dell’attore lo rendono impossibile.
Questo atto non può esistere se l’attore è più preoccupato dal fascino, dal successo personale, dagli applausi e dai guadagni che non dalla creazione come viene intesa nella sua forma più0 alta. Non può esistere se l’attore lo condiziona in rapporto alla lunghezza della sua parte, al suo posto nella rappresentazione, al giorno dello spettacolo al tipo di pubblico. Non può esservi alcun atto totale se l’attore, anche al di fuori del teatro, dissipa il suo impulso creativo e, come già detto, lo insudicia, lo blocca, soprattutto mediante impegni incidentali di natura dubbia o tramite l’uso premeditato dell’atto creativo come mezzo di ascesa nella sua carriera.

Da “Per un teatro povero” di Jerzy Grotowski


ENGLISH VERSION

Editor(Owen Daly)>This is a statement of ten principles for prospective students at his theatre lab. Grotowski wrote this text for internal use within his Theatre Laboratory, and in particular for those actors undergoing a period of trial before being accepted into the troupe in order to acquaint them with the basic principles inspiring the work. Translation: Ma]a Buszewicz and Judy Barba.

Taken from the book ‘Towards a Poor Theatre’ by Grotowski pages 211 – 218

Statement of Principles – Jerzy Grotowski

I

The rhythm of life in modern civilization is characterized by pace, tension, a feeling of doom, the wish to hide our personal motives and the assumption of a variety of roles and masks in life (different ones with our family, at work, amongst friends or in community life, etc.-). We like to be “scientific”, by which we mean discursive and cerebral since this attitude is dictated by the course of civilization. But we also want to pay tribute to our biological selves, to what we might call physiological pleasures. We do not want to be restricted in this sphere. Therefore we play a double game of intellect and instinct, thought and emotion; we try to divide ourselves artificially into body and soul. When we try to liberate ourselves from it all we start to shout and stamp, we convulse to the rhythm of the music. In our search for liberation, we reach biological chaos. We suffer most from a lack of totality, throwing ourselves away, squandering ourselves.

Theatre – through the actor’s technique, his art in which the living organism strives for higher motives – provides an opportunity for what could be called integration, the discarding of masks, the revealing of the real substance: a totality of physical and mental reactions. This opportunity must be treated in a disciplined manner, with a full awareness of the responsibilities it involves. Here we can see the theatre’s therapeutic function for people in our present-day civilization. It is true that the actor accomplishes this act, but he can only do so through an encounter with the spectator – intimately, visibly, not hiding behind a cameraman, wardrobe mistress, stage designer or make-up girl – in direct confrontation with him, and somehow ” instead of” him. The actor’s act – discarding half measures, revealing, opening up, emerging from himself as opposed to closing up – is an invitation to the spectator. This act could be compared to an act of the most deeply rooted, genuine love between two human beings – this is just a comparison since we can only refer to this “emergence from oneself” through analogy. This act, paradoxical and borderline, we call a total act. In our opinion, it epitomizes the actor’s deepest calling.

II

Why do we sacrifice so much energy to our art? Not in order to teach others but to learn with them what our existence, our organism, our personal and unrepeatable experience have to give us; to learn to break down the barriers which surround us and to free ourselves from the breaks which hold us back, from the lies about ourselves which we manufacture daily for ourselves and for others; to destroy the limitations caused by our ignorance and lack of courage; in short, to fill the emptiness in us: to fulfill ourselves. Art is neither a state of the soul (in the sense of some extraordinary, unpredictable moment of inspiration) nor a state of man (in the sense of a profession or social function). Art is a ripening, an evolution, an uplifting which enables us to emerge from darkness into a blaze of light.

We fight then to discover, to experience the truth about ourselves; to tear away the masks behind which we hide daily. We see theatre – especially in its palpable, carnal aspect – as a place of provocation, a challenge the actor sets himself and also, indirectly, other people. Theatre only has a meaning if it allows us to transcend our stereotyped vision, our conventional feelings and customs, our standards of judgment – not just for the sake of doing so, but so that we may experience what is real and, having already given up all daily escapes and pretenses, in a state of complete defenselessness unveil, give, discover ourselves. In this way – through shock, through the shudder which causes us to drop our dally masks and mannerisms – we are able, without hiding anything, to entrust ourselves to something we cannot name but in which live Eros and Charitas.

III

Art cannot be bound by the laws of common morality or any catechism. The actor, at least in part, is creator, model and creation rolled into one- He must not be shameless as that leads to exhibitionism. He must have courage, but not merely the courage to exhibit himself – a passive courage, we might say: the courage of the defenseless, the courage to reveal himself. Neither that which touches the interior sphere nor the profound stripping bare of the self should be regarded as evil so long as in the process of preparation or in the completed work they produce an act of creation. If they do not come easily and if they are not signs of outburst but of mastership, then they are creative: they reveal and purify us while we transcend ourselves. Indeed, they improve us then.

For these reasons every aspect of an actor’s work dealing with intimate matters should be protected from incidental remarks, indiscretions, nonchalance, idle comments and jokes. The personal realm – both spiritual and physical – must not be “swamped” by triviality, the sordidness of life and lack of tact towards oneself and others; at least not in the place of work or anywhere connected with it. This postulate sounds like an abstract moral order. It is not. It involves the very essence of the actor’s calling. This calling is realized through carnality. The actor must not Illustrate but accomplish an “act of the soul” by means of his own organism. Thus he is faced with two extreme alternatives: he can either sell, dishonour, his real “incarnate” self, making himself an object of artistic prostitution; or he can give himself, sanctify his real “incarnate” self.

IV

An actor can only be guided and inspired by someone who is whole-hearted in his creative activity. The producer, while guiding and inspiring the actor, must at the same time allow himself to be guided and inspired by him- it is a question of freedom, partnership, and this does not imply a lack of discipline but a respect for the autonomy of others. Respect for the actor’s autonomy does not mean lawlessness, lack of demands, never-ending discussions and the replacement of action by continuous streams of words. On the contrary, respect for autonomy means enormous demands, the expectation of a maximum creative effort and the most personal revelation. Understood thus, solicitude for the actor’s freedom can only be born from the plenitude of the guide and not from his lack of plenitude. Such a lack implies imposition, dictatorship, superficial dressage.

V

An act of creation has nothing to do with either external comfort or conventional human civility; that is to say working conditions in which everybody is happy. It demands a maximum of silence and a minimum of words. In this kind of creativity, we discuss through proposals, actions and living organisms, not through explanations. When we finally find ourselves on the track of something difficult and often almost intangible, we have no right to lose it through frivolity and carelessness. Therefore, even during breaks after which we will be continuing with the creative process, we are obliged to observe certain natural reticences in our behaviour and even in our private affairs. This applies just as much to our own work as to the work of our partners. We must not interrupt and disorganize the work because we are hurrying to our own affairs; we must not peep, comment or make jokes about it privately. In any case, private Ideas of fun have no place in the actors calling. In our approach to creative tasks, even if the theme is a game, we must be in a state of readiness – one might even say ” solemnity”. Our working terminology which serves as a stimulus must not be dissociated from the work and used in a private context. Work terminology should be associated only with that which it serves.

A creative act of this quality is performed in a group, and therefore within certain limits, we should restrain our creative egoism. An actor has no right to mold his partner so as to provide greater possibilities for his own performance. Nor has he the right to correct his partner unless authorized by the work leader. Intimate or drastic elements in the work of others are untouchable and should not be commented upon even in their absence. Private conflicts, quarrels, sentiments, animosities are unavoidable in any human group. It is our duty towards creation to keep them in check in so far as they might deform and wreck the work process. We are obliged to open ourselves up even towards an enemy.

VI

It has been mentioned several times already but we can never stress and explain too often the fact that we must never exploit privately anything connected with the creative act: i. e. location, costume, props, an element from the acting score a melodic theme or lines from the text. This rule applies to the smallest detail and there can be no exceptions. We did not make this rule simply to pay tribute to a special artistic devotion. We are not interested in grandeur and noble words, but our awareness and experience tell us that lack of strict adherence to such rules causes the actors’ score to become deprived of its psychic motives and “radiance.”

VII

Order and harmony in the work of each actor are essential conditions without which a creative act cannot take place. Here we demand consistency. We demand it from the actors who come to the theatre consciously to try themselves out in something extreme, a sort of challenge seeking a total response from every one of us. They come to test themselves in something very definite that reaches beyond the meaning of “theatre” and is more like an act of living and way of existence. This outline probably sounds rather vague. If we try to explain it theoretically, we might say that the theatre and acting are for us a kind of vehicle allowing us to emerge from ourselves, to fulfil ourselves. We could go into this at great length. However, anyone who stays here longer than just the trial period is perfectly aware that what we are talking about can be grasped less through grandiose words than through details, demands and the rigours of work in all its elements. The individual who disturbs the basic elements, who does not, for example, respect his own and the others acting score, destroying its structure by shamming or automatic reproduction, is the very one who shakes this undeniable higher motive of our common activity. Seemingly small details form the background against which fundamental questions are decided, as for example the duty to note down elements discovered in the course of the work. We must not rely on our memory unless we feel the spontaneity of our work is being threatened, and even then we must keep a partial record. This is just as basic a rule as is strict punctuality, the thorough memorizing of the text, etc. Any form of shamming in one’s work is completely inadmissible. However, it does sometimes happen that an actor has to go through a scene, just outline it, in order to check its organization and the elements of his partners’ actions. But even then he must follow the actions carefully, measuring himself against them, in order to comprehend their motives. This is the difference between outlining and shamming.

An actor must always be ready to join the creative act at the exact moment determined by the group. In this respect, his health, physical condition and all his private affairs cease to be just his own concern. A creative act of such quality flourishes only if nourished by the living organism. Therefore we are obliged to take daily care of our bodies so we are always ready for our tasks. We must not go short of sleep for the sake of private enjoyment and then come to work tired or with a hangover. We must not come unable to concentrate. The rule here is not just one’s compulsory presence in the place of work, but physical readiness to create.

VIII

Creativity, especially where acting is concerned, is boundless sincerity, yet disciplined: i.e. articulated through signs. The creator should not, therefore, find his material a barrier in this respect. And as the actor’s material is his own body, it should be trained to obey, to be pliable, to respond passively to psychic impulses as if it did not exist during the moment of creation – by which we mean it does not offer any resistance. Spontaneity and discipline are the basic aspects of an actor’s work and they require a methodical key.

Before a man decides to do something he must first work out a point of orientation and then act accordingly and in a coherent manner. This point of orientation should be quite evident to him, the result of natural convictions, prior observations and experiences in life. The basic foundations of this method constitute for our troupe this point of orientation. Our institute is geared to examining the consequences of this point of orientation. Therefore nobody who comes and stays here can claim a lack of knowledge of the troupe’s methodical program. Anyone who comes and works here and then wants to keep his distance (as regards creative consciousness) shows the wrong kind of care for his own individuality. The etymological meaning of ” individuality” is ” indivisibility” which means complete existence in something: individuality is the very opposite of half-heartedness. We maintain, therefore, that those who come and stay here discover in our method something deeply related to them, prepared by their lives and experiences. Since they accept this consciously, we presume that each of the participants feels obliged to train creatively and try to form his own variation inseparable from himself, his own reorientation open to risks and search. For what we here call “the method” is the very opposite of any sort of prescription.

IX

The main point then is that an actor should not try to acquire any kind of recipe or build up a “box of tricks.” This is no place for collecting all sorts of means of expression. The force of gravity in our work pushes the actor towards an interior ripening which expresses itself through a willingness to break through barriers, to search for a “summit”, for totality.

The actor’s first duty is to grasp the fact that nobody here wants to give him anything; instead they plan to take a lot from him, to take away that to which he is usually very attached: his resistance, reticence, his inclination to hide behind masks, his half-heartedness, the obstacles his body places in the way of his creative act, his habits and even his usual “good manners”.

X

Before an actor is able to achieve a total act he has to fulfil a number of requirements, some of which are so subtle, so intangible, as to be practically undefinable through words. They only become plain through practical application. It is easier, however, to define conditions under which a total act cannot be achieved and which of the actor’s actions make it impossible. This act cannot exist if the actor is more concerned with charm, personal success, applause and salary than with creation as understood in its highest form. It cannot exist if the actor conditions it according to the size of his part, his place in the performance, the day or kind of audience. There can be no total act if the actor, even away from the theatre, dissipates his creative impulse and, as we said before, sullies it, blocks it, particularly through incidental engagements of a doubtful nature or by the premeditated use of the creative act as a means to further own career.